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Atlante, il titano che reggeva la volta celeste

Mi chiamo Atlante, un nome prestigioso, sono l’ultimo dei quattro figli del Titano Giapeto Non confondetemi con il personaggio dell’Orlando furioso, negromante astuto e bizzarro, che con le sue arti tentava di impedire la conversione al cristianesimo di Ruggiero. La fantasia popolare mi ha immaginato in piedi o in ginocchio mentre sostengo la volta del Cielo. Una punizione che mi ha inflitto quel giudice supremo che siede sul trono dell’Olimpo, quello Zeus che si è diviso il dominio dell’universo con i fratelli Ades e Poseidone. Lui si è tenuto il Cielo, ad Ades è toccato l’impero sotterraneo e Poseidone è diventato il re dei mari. E pensare che sono miei cugini. I nostri padri, Crono e Giapeto, sono fratelli. La mia colpa è di essermi schierato con mio padre e i miei zii contro la prepotenza degli dèi olimpici, e di avere perso la battaglia. Per i perdenti non c’è stata clemenza: i titani sono finiti nel profondo del Tartaro, anche mio fratello Menezio fu sprofondato sottoterra. Io fui relegato nell’estremo Occidente a reggere la volta celeste e il mondo degli uomini. E non chiedetemi se la Terra era rotonda o piatta: la risposta ve l’hanno già data gli scienziati. Quello che mi fa più soffrire è la solitudine. Come in un film continuano a passarmi davanti agli occhi le immagini della lotta spietata contro gli”olimpici”, il tradimento degli Ecantochiri, i giganti dalle cento braccia che si schierarono con Zeus. Anche i Ciclopi ci si misero contro: fabbricavano nelle loro officine vulcaniche armi micidiali, tuoni e fulmini. Senza il loro aiuto le sorti della guerra sarebbero state ben diverse. I miei due fratelli Prometeo ed Epimeteo preferirono rimanere in una posizione neutrale. Ma furono anche loro puniti dagli dèi. Prometeo fu incatenato a una roccia e sottoposto a un crudele supplizio. La sua storia è complessa, fatevela raccontare da lui. Epimeteo, invece, sposò quella Pandora che con il suo vaso avrebbe creato tante sventure agli uomini. E così me ne sto con il mio pesante fardello a rimuginare sulle mie disgrazie. Ripenso ogni tanto a mio padre prigioniero nel Tartaro, guardato a vista da quegli odiosi mostri dalle cento braccia; a mia madre che aveva un nome bellissimo, Climene, ed era figlia di Oceano e di Teti…

L’incontro con Eracle

Ma basta con i ricordi familiari. Eppure la grande occasione per liberarmi del pesante fardello ce l’ho avuta. Non ne ho approfittato per stupidità e semplicità d’animo, caratteristiche comuni a tutti i giganti, che all’astuzia e alla malizia hanno sempre preferito la forza e la violenza. Sentite cosa mi è capitato: ero immerso nei miei pensieri, allorché un giorno venne a trovarmi Eracle: era sempre in giro per il mondo impegnato nelle sue missioni. Mi disse che anche lui aveva i suoi “fardelli”, che doveva compiere delle “fatiche” che avrebbero stroncato anche un gigante come me. Mi raccontò che doveva portare a un re tre pomi dell’immortalità, che si trovavano in un immenso giardino, a guardia del quale c’era un enorme drago che sputava fuoco. Mi chiese se potevo andarglieli a prendere io nel giardino delle Esperidi, le ninfe del tramonto. In cambio si offrì di reggere lui il mondo. Non mi sembrava vero, acconsentii volentieri. Era la mia grande occasione di riacquistare la libertà. Quando tornai indietro non avevo alcuna intenzione di riprendermi sulle spalle la volta celeste. Per avere la coscienza a posto mi offrii di portare a termine la missione di Eracle, gli dissi che avrei portato io i frutti dell’immortalità a chi di dovere. Eracle si dichiarò d’accordo, anzi mi sembrava contento di fermarsi un po’ dal suo continuo girovagare per il mondo. Mi pregò di liberarlo del peso solo per il tempo di mettersi un cuscino sulle spalle. Non so perché mi fidai. Che ingenuità. Una volta libero, Eracle si prese i pomi d’oro e sorridendo se ne andò. E io rimasi di nuovo solo con i miei ricordi e con sulle spalle il fardello dell’intera umanità. C’è però una soddisfazione. Sono consapevole di essere stato un personaggio dell’antica mitologia che ha lasciato un’impronta eterna. Si favoleggia ancora oggi dell’Atlantide, la fantastica isola posta di fronte alle Colonne di Eracle (cioè l’attuale stretto di Gibilterra), scomparsa misteriosamente. Le raccolte delle carte geografiche portano il mio nome, come pure il vasto Oceano che separa l’Europa dalle Americhe. La capitale della Georgia è stata chiamata Atlanta, e c’è anche il sistema montuoso in Africa che porta il mio nome. Potrei continuare, perché l’elenco dei nomi che mi ricordano sono tanti. I nomi dei miei cugini, invece, sono caduti nell’oblio. Gli antichi Romani hanno cambiato addirittura i loro nomi: Zeus è diventato Giove, Ades è stato trasformato in Plutone e Poseidone, il re dei mari, è stato chiamato Nettuno. Anche il grande Eracle non è riuscito a conservare intatto il suo nome: lo hanno chiamato Ercole.



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