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Intervista a Herman Normoid: il subconscio di un artista

Herman Normoid nasce al Cairo nel 1966 da padre italiano e madre siriana; lo stesso anno la famiglia si trasferisce definitivamente a Roma. A venticinque anni termina la sua specializzazione nella conservazione dei beni culturali presso l’UNESCO iniziando presto a restaurare opere d’arte. Questa posizione professionale privilegiata lo mette in contatto con opere di grande interesse artistico e culturale sia in Italia che all’estero.

Comincia a dipingere nella sua piena maturità raggiungendo subito alti livelli, specialmente nella pittura informale e neoespressionista. Nel 2007 fonda la corrente di pensiero da lui stesso denominata Volumismo, di cui cura la redazione del manifesto.

Artista riservato, ha scelto di presentarsi al pubblico attraverso un logo e con il motto “Proud to be Obsolete”, fiero di essere obsoleto, che ne denuncia lo spirito ironico e il grande rispetto per l’arte dei grandi maestri.

Ha esposto a Roma, Buenos Aires, Reggio Emilia, Forlì, Noto. Una significativa personale, presentata da Philippe Daverio, è stata allestita tra novembre e dicembre 2016 negli spazi espositivi della Cappella dell’Incoronazione presso il RISO, Polo Museale Regionale d’Arte moderna e contemporanea di Palermo.

Herman Normoid lavora principalmente con pigmenti puri e leganti acrilici su mdf. Le sue opere sono quasi tutte eseguite con grandi spatole piatte attraverso le quali egli cerca di ridurre al minimo l’effetto della parte cosciente della sua mente liberando il subcosciente. I suoi inizi sono segnati da una rivisitazione dell’Action Painting e dell’Espressionismo astratto per poi approdare all’espressionismo puro delle sue vedute fantastiche e dei volti rigorosamente in toni di grigio.

Ai dipinti che raffigurano volti, il pittore arriva dopo aver lanciato una sfida alla tecnica che lui stesso ha scelto quale principale per la realizzazione delle sue opere: riuscire a rendere le fattezze umane con l’uso di grandi spatole piatte da muratore che non consentono nessun tipo di controllo dei particolari.

 

Nell’ultima produzione Normoid elabora ancestrali graffiti che sembrano elaborati da decine di mani differenti: nel suo graffito si riversa un imbuto temporale e spaziale che gli permette, in un gioco di sostituzioni, di fondersi sia con i suoi avi che con le persone che di lì passavano per caso.

Hanno scritto di lui vari critici, tra questi Stefano Liberati in “Il Volumismo è libertà. L’opera di Herman Normoid” (introduzione di Mimmo di Marzio); Loretta Eller in “Mono. Herman Normoid e il Minimalismo Cromatico“; Roberto Luciani, “Subconscio. Conversando con Herman Normoid” (introduzione di Philippe Daverio, Roma 2015).

L’Accademia Nazionale d’Arte Antica e Moderna di Roma cura l’archivio delle sue opere. Normoid vive e lavora a Noto, Roma e a Buenos Aires.

 

 

D. Da dove ti è venuta l’ispirazione per dipingere le opere da te definite con la locuzione “Vedute fantastiche”.

R. Sono passati ormai 6 o 7 anni da quando ho cominciato a sperimentare un sistema che mi permettesse di ricevere uno spiraglio espressivo proveniente dal mio io più intimo. Un percorso che mi ha portato a superare le barriere della tecnica pittorica, liberando quanto di più concettualmente è difficile concepire: che il subcosciente possa esprimersi senza uscire dalla sua naturale e recondita sede, fondamento strutturale del nostro essere cosciente. Quindi lo scopo che mi sono voluto prefiggere è stato quello di poter esprimere i messaggi provenienti dal subconscio senza che questo si rivelasse nella realtà: un compito più insensato che arduo, irrazionale e contraddittorio. Ma del resto io non riuscivo a reprimere il senso di irrequietezza dato  dall’assenza di qualcosa che reputavo fondamentale.

D. Quindi più che una ispirazione è stata l’inquietudine che ti ha spinto? La necessità di placare la tua sete creativa?

R. Per me è stato esattamente questo: il senso di insoddisfazione, quasi una ricerca senza meta, un viaggio istintivo verso qualcosa di sconosciuto e forse per questo tanto attraente.

D. Ma il subcosciente non è un oggetto di cui si possa scientificamente provare l’esistenza; quando usi questo termine cosa immagini? Tu cosa pensi sia il subconscio?

R. Ho sempre immaginato il subcosciente come la parte interna del nostro pianeta Terra: una sfera di magma liquido sempre in movimento, invisibile ed impossibile da percepire e da immaginare se non grazie ai vulcani che ci lasciano immaginare come sotto i nostri piedi, seppur a qualche chilometro di profondità, si celi un’energia antica, un’enorme massa incandescente. Ma se il subconscio è il nucleo come sarebbe stato possibile trovare un serbatoio magmatico e un condotto in modo che almeno una piccola parte di questa lava incandescente potesse generare un’eruzione, andando a coprire la parte cosciente del mio io, la mia crosta terrestre o almeno affiancandosi ad esso? Il blocco dello scrittore, la sindrome della tela bianca, le semplici e classiche mancanze di ispirazione, altro non sembrano essere che mancanze di energia, energia forse assente dal nostro io cosciente, dalla nostra volontà, ma abbondantissima negli strati sepolti, ricchi di magma che non si esprime se non in modo veicolato, proiettato all’esterno, libero di muoversi senza controllo o solamente con un controllo parziale.

D. L’esistenza del subconscio è quindi un fatto non scientificamente verificabile, è esso stesso frutto di una intuizione. In quali termini ti sei posto il problema?

R. Ho immaginato un complesso di impulsi, sentimenti, passioni e fantasie che rimangono fuori dal dominio della coscienza, esattamente come si rivelano nei sogni o in quei momenti in cui ci si risveglia ma si resta in uno stato di semi-incoscienza, di profondo rilassamento, in una specie di fase di decompressione prima del ritorno alla realtà. Ecco, la fase del risveglio: è come se una parte del cervello rimanesse in uno stato di sonno e contemporaneamente di veglia, in uno stato di ipnosi autoindotta. In quella fase potrebbe essere rilevabile la presenza del subconscio, il momento in cui una serie di relazioni e collegamenti, nella vita reale nascosti dalla luce abbagliante della quotidianità, si rendono palesi nella loro delicatezza; oggetti traslucidi appena visibili nella penombra del risveglio, ma troppo tenui per essere apprezzabili nella piena coscienza.

D. Chi di noi non ha provato la sensazione di chiarezza di alcune visioni, chi non ha risolto problemi che nella realtà apparivano irrisolvibili, nello stato di dormiveglia? In effetti è come se la mancanza totale di disturbi esterni lasciasse il nostro cervello elaborare dati ad un livello più profondo e ad una velocità più elevata di quanto possa fare durante il giorno.

R. Hai colto nel segno: secondo questa visione, questa lettura del subcosciente quale flusso, è la diminuzione dei dati che giungono dalla vita reale che aiuta la lettura e l’espressione del canale subcosciente

D. Ma è anche una questione di mezzi espressivi? Ridurre la possibilità di controllare il dettaglio aiuta l’emersione della fase subcosciente?

R. Esatto, anche il minimalismo cromatico aiuta nella riduzione delle distrazioni, il bianco e il nero, la luce pura e la sua assenza totale, ancor più lontani dagli input del mondo cosciente, con i suoi fragori, le sue luci abbaglianti e la sua frenesia. Un metodo pittorico di cui già avevo intuito le possibilità era quello basato sull’utilizzo di colori pastosi e a rapida essicazione, in base acquosa, stesi a mezzo di ampie spatole piatte su supporti rigidi, lisci e senza testura. Devo confessare che questo modus operandi non è frutto di una ricerca, ma semplice effetto di una mia esigenza pittorica e tecnica dettata dal tipo di pittura astratta, ad ampie campiture, che ha sempre caratterizzato i miei lavori.

D. Tu non pensi quindi ci sia un distacco completo tra la fase cosciente e quella subcosciente, vero?

R. È così. Una tecnica pittorica poco controllabile, ma non una totalmente ingovernabile come era la peinture automatique di André Masson, rende possibile, secondo quest’ipotesi, l’espressione del livello sub-cosciente della mente umana. L’assenza di distrazioni ambientali, un alto livello di concentrazione, il distacco dalle inevitabili problematiche della vita di tutti i giorni, quasi in uno stato meditativo, veicolano all’esterno l’espressione di quel substrato del flusso mentale che, pur senza mostrarsi con evidenza, è sempre presente. Il subconscio è il piano in cui realtà e mente si toccano: è una zona cuscinetto che interagisce con entrambe le parti. È denso e sottile, colmo di informazioni base, poco elaborate e primordiali di difficile espressione e lettura, se non in uno stato onirico o di pre-risveglio.

D. Oggi, a distanza di anni dai tuoi primi lavori, qualcosa è cambiato?

R. Il dialogo tra il cosciente e il subcosciente, tra l’occhio e la mano, tra le due spatole e il pastoso colore è oggi diventato in un certo senso più semplice, anche se è sempre a distanza di giorni o di settimane dalla stesura del quadro che comincio a vedere il dipinto che io stesso ho realizzato ma che non avevo compreso fino in fondo. Guardo e vedo, vedo ciò che anche volendo non potrei ripetere: impossibili e non duplicabili, volti trascendenti fissati in un momento, perché il momento dopo sarebbero irrimediabilmente scomparsi sotto l’ulteriore, incontrollabile spatolata, che ne stravolgerebbe il senso. Ed è questa forse la sola cosa che rimane nel dominio del cosciente, la decisione di cominciare e quella di finire; ma in fondo neanche questo è vero, se scopro cose che non avevo visto, in un quadro di cui io stesso avevo decretato la “fine lavori”.

D. E qui ritorni ai concetti espressi dal Volumismo, alla rilettura intima di cui parla Stefano Liberati in “Il Volumismo è libertà”; della continua metamorfosi dell’opera d’arte nella mente di chi la osserva e delle infinite letture che gli innumerevoli osservatori daranno dell’opera stessa.

R. Vado oltre: come in una casa labirintica dove ogni stanza ha una porta che conduce ad un altra stanza, le questioni non finiscono qui. Se è il mio subconscio che si esprime, quale impatto avrà sulla visione degli altri? A quale livello interviene un dipinto del genere? Lo osserva la mente cosciente dello spettatore o forse tocca le corde dell’altrui subconscio?

D. Mi sembra che la tua opera si possa inserire più all’interno di una produzione espressionista che surrealista. Anche se il subconscio è una parola più usata dai surrealisti: gli espressionisti, hanno come te sempre dato più importanza al versante emozionale che a quello visuale.

R. Non c’è dubbio. Se proprio dovessi ascrivere il mio lavoro ad una corrente, questa sarebbe quella espressionista, sia nell’astrattismo che nel figurativo. E non manca anche quel senso di denuncia sociale e politica tipica dell’espressionismo: specialmente nella lettura dei volti si può avvertire l’aura di qualcosa di catastrofico, un ammonimento, un senso di condanna delle efferatezze che l’essere umano è capace di perpetrare, delle mostruosità di cui è esperto artefice. Forse sarà la velocità con cui l’informazione si propaga nel mondo, ma è incredibile quanta violenza, spesso davvero gratuita, sia generata nel mondo.



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