Arte e gastronomia, tradizioni culturali e conviviali, fasti di palazzo e feste popolari: su questi temi l’Emilia-Romagna ha creato la sua mitologia. Certo, non si capisce un emiliano se non si capisce la sua cucina. Fermiamoci ai tortellini. Al contrario delle tagliatelle bolognesi che hanno una data di nascita ufficiale (il 1501, quando Lucrezia Borgia andò sposa ad Alfonso I d’Este e Mastro Zafirano, grande cuoco di casa Bentivoglio, rimase affascinato dalla bellezza di Monna Lucrezia, tanto da prenderne a modello la sua bionda chioma fluente), l’invenzione dei tortellini si perde nelle leggende campanilistiche. La loro paternità viene disputata da sempre fra bolognesi e modenesi. Hanno ragione entrambi, se il piatto più famoso della cucina emiliana venne inventato alcuni secoli fa da un cuoco bolognese a Modena ai tempi della “Secchia rapita”. Per proteggere i tortellini è sorta, comunque, a Bologna la Dotta Confraternita, fondata da Giovanni Poggi, il quale sostiene che l’unico “obbligo” del tortellino è che sia in brodo, meglio se in brodo di cappone. La Confraternita, però, si rifiuta di codificarne il ripieno, entrando così in polemica con l’Accademia Italiana della Cucina. Regola generale, tuttavia, è che nell’impasto ci siano lombo cli maiale, prosciutto, mortadella, petto di tacchino (incerta la polpa di vitello, facoltative le cervella) tritati e rosolati nel burro, uova, noce moscata e grana abbondante. Ovviamente, si pasteggia a Lambrusco.
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