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Liberatore – da Castel Sant’Angelo a New York

Bruno Liberatore, già allievo prediletto e assistente di Pericle Fazzini, è un artista di fama mondiale. Ha partecipato ad importanti rassegne internazionali di scultura, fra le quali: “Quadriennale Internazionale d’arte” di Roma (1975, 1983, 1984); “Rassegna Itinerante della Scultura Italiana”, di Tokyo, Osaka e Sogo (1979, 1980); “Feria Internacional de Bilbao” (1982); Palazzo dei Diamanti di Ferrara (1984); “Biennale d’Arte Contemporanea” di Ancona (1990); “First Egyptian International Print” di Al Qahirah (1993-94); Museo Schloss Pillnitz di Dresda (1999) e, sempre nello stesso anno, partecipa alla Mostra “Lavori in Corso 8” presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma. Del 2001 è la mostra romana “Grandi Sculture” presso il Complesso Monumentale del Vittoriano, seguita da un’esposizione al Memorial de l’America Latina di San Paolo del Brasile. Una sua antologica, presentata anche dal critico Gillo Dorfles, ha campeggiato nel 2007 all’Ermitage di San Pietroburgo, dove enormi sculture sono state esposte nel Bolshoij Pardnij Dvor, il grande Cortile di Gala del museo, affiancandosi a opere di minori dimensioni, quali modelli, gioielli e disegni, ospitate nelle contigue sale dello Stato Maggiore.  Il Museo dell’Ermitage ha oggi dedicato alcune sale permanenti alle opere di Liberatore, unico artista vivente ad ottenere tale privilegio. Nel 2014- 2015 l’artista ha esposto ai Mercati di Traiano in Roma. Sempre nella capitale nel 2008 ha collocato in Piazzale Clodio una grande scultura, intitolata Assalto all’Olimpo, subito divenuta un simbolo contemporaneo del quartiere Mazzini-Clodio. Si tratta di un’opera monumentale, alta 6,40 metri dal peso di oltre 14 quintali. Nel 2016 ha partecipato alla quadriennale di Gubbio. Tra le grandi mostre va sottolineata la straordinaria esposizione del 1993-94 a Castel Sant’Angelo in Roma, con progetto dell’allestimento dell’architetto Roberto Luciani. Nelle sue sculture Liberatore offre infatti sempre molteplici itinerari e modi di fruizione dell’elemento plastico, dove l’ “oggetto” è dinamico offrendo la possibilità di essere guardato in una mutazione continua di prospettive e di tagli. Mai, tuttavia, come nell’esposizione sui bastioni e sui camminamenti di Castel Sant’Angelo, i piani e gli scorci della percezione si sono tanto dilatati e moltiplicati. Le sculture si potevano osservare non più soltanto frontalmente o da dentro, ma anche a volo d’uccello e/o zenitalmente con suggestive visioni dalle Gallerie semicircolari (Giretto di Pio IV), dalle Logge di Giulio II e Paolo III, nonché dal terrazzo dell’Angelo bronzeo di Pietro van Verschaffelt. Per interpretare correttamente la complessa e intensa personalità di Bruno Liberatore non si può prescindere dal risalire tanto alle origini della sua terra che a quella culturale. Non fosse nato a Penne, in Abruzzo, probabilmente le sue sculture non avrebbero quel preciso collegamento con la natura, il paesaggio e l’ambiente; non fosse stato allievo di Pericle Fazzini e Umberto Mastroianni all’Accademia di Belle Arti di Roma, le sue opere non avrebbero quell’intrinseca lacerante emotività capace più di evocare che non analizzare la realtà. L’opera d’arte è infatti vissuta dal Maestro come rielaborazione di suggestioni ancestrali e arcaiche, materializzata in evento plastico capace di porsi in dialogo equilibratore con l’ambiente circostante, a costituire, anzi, la stessa scultura in ambiente. Le opere di Liberatore non sono sculture da arredo urbano, ma da spazio urbano; i complessi plastici progettati e realizzati si propongono anche come schegge di tessuti urbanistici sostitutivi e autonomi, al pari della città ideale rinascimentale. Sono tuttavia modelli di una architettura invivibile e inabitabile che coagula culturalmente archetipi della memoria con fabbriche fiabesche, sia per tipologia che per attendibilità statica.

L’Autore lavora sul paesaggio e sulla città rifiutandone tuttavia il carattere di contemporaneità, preferendo la rievocazione del passato o un’ immaginario fantascientifico del futuro. Così operando si allontana coscientemente e volutamente da tutti: sia dalle ridefinizioni plastiche di quartieri già costruiti di Francesco Somaini, sia dalle progettazioni per la “città frontale” di Pietro Consagra, sia dalla piazza-monumento in Ales dedicata a Gramsci di Giò Pomodoro. In realtà, in opere come Piazza (1981), Percorsi, Obelisco e piazza, Insenatura (1982), Incrocio (1983), Cresta terrestre (1985), Obelischi (1985-86), Faglia (1987), Isola  (1989-92); Paesaggio verticale (2002); Flusso tellurico (2007-09); Ambiente e vuoto (2012); si rintraccia una certa intercambiabilità tra ambiente naturale e ambiente costruito, postulata dall’Artista nell’intento di realizzare un’ armonioso “risanamento” di un contesto urbanistico o paesaggistico. In questo senso Liberatore può considerarsi un “architetto” e un “restauratore”, impegnato nel difficile compito di misurarsi con i grandi spazi della città e del territorio. Addirittura anche quando lavora su dimensioni da cavalletto, si ritrova la vocazione verso la grande scala, che fa apparire modello questo tipo di impegno. Ancor prima di arrivare ai “paesaggi”, l’artista abruzzese fu attratto dalla architettura e dalla conservazione: emblematici sono i suoi “muri”, le “facciate”, le “porte”, ma soprattutto le “absidi”, sorta di avvolgenti sacelli devozionali, dove raccogliersi per evocare i ricordi del cuore e dell’anima. Le sculture-paesaggio, costituite per lo più da simboliche piramidi in bronzo, ferro e ardesia, alte fino a cinque-sei metri, sono percorribili, penetrabili, da interpretare quale suggestiva e strabiliante presenza ambientale, ovviamente oniricamente traslata. Il trattamento della materia costitutiva delle opere riveste particolare  importanza: attraverso una lavorazione a goccia schiacciata e poi abrasa, l’Autore giunge ad una marcata ricerca di pittoricismo della stessa, predisposta a trattenere la luce, ma anche con l’obiettivo di rendere le sue “architetture” degradate, consumate, già intensamente vissute. Bruno Liberatore,  nato nel 1947, è stato per molti anni titolare della cattedra di Scultura dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Dall’inizio degli anni Ottanta, nelle sue opere richiama una natura evocata quale archetipo memoriale ambientale, dapprima echeggiando nelle proprie sculture, di snodo narrativo, forme plastiche primarie suggerite da profili e corpi dei suoi monti d’Abruzzo; quindi, dagli anni Novanta, introiettando natura e paesaggio in una sorta di cosmogonia originaria. La sua scultura va ad assumere, infatti, aspetti monumentali, divenendo paesaggio e  scultura-paesaggio. Il lavoro plastico di Liberatore si innesta sulla consapevolezza dei mezzi tipici della scultura, tuttavia utilizzando un tratto materiologico, nella scelta provocatoriamente disparata delle materie plastiche, fra ferro, bronzo, terracotta utilizzati in un medesimo contesto (soprattutto nelle sculture più recenti), sia nel trattamento accentuatamente materico nella caratterizzazione specifica delle superfici (nella lavorazione corsiva a microtasselli del bronzo e della terracotta). Ne deriva una varietà di soluzioni plastiche di volta in volta del tutto imprevedibile e imprevista. Nel settembre 2016 Bruno Liberatore viene invitato dalla prestigiosa università americana MARIST ad esporre sue grandi sculture in bronzo a New York. La mostra è allestita nello storico e monumentale palazzo del Gotham Hall di Manhattan, caratterizzato da colonne corinzie, pareti di granito, iscrizioni e attributi di antiquariato che simboleggiano la saggezza e il commercio e un soffitto a cupola con un lucernario in vetro colorato di 3.000 piedi quadrati. Tra le grandi opere esposte: Crisi di una piramide (peso 280 Kg), Citta celeste, città terrestre (peso 350 Kg), Radice aerea (peso 260 Kg), Palazzo (200 Kg). Questa esposizione è una sfida impari. Tuttavia, se le sculture di Liberatore sapranno reggere il confronto con un monumento apportatore e catalizzatore di storia e storie dalle mastodontiche dimensioni e dall’austera e impressionante architettura realizzata come sede della The Greenwich Savings Bank, vorrà dire che quelle opere posseggono veramente qualcosa di universale.



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