Il loro codice d’onore tramandato alla moderna yakuza aveva tre comandamenti principali: 1) Non toccare la moglie dei seguaci; 2) Non rivelare a nessuno i segreti dell’organizzazione; 3) Sii fedele al tuo capo. L’ultima regola era presa dal codice dei samurai: assoluta obbedienza al proprio signore. Ancora oggi, nelle famiglie yakuza, chi viene accusato di infedeltà al capo può dimostrare il proprio pentimento amputandosi la falange di un dito (preferibilmente il mignolo).
Figlio mio! Ogni gruppo di queste prime yakuza faceva capo a una famiglia e ciascuna controllava un pezzo di Giappone. La struttura della famiglia era (ed è) piramidale, con il “padre” al vertice e i “figli” al suo servizio. Come nelle cosche siciliane, a fare una famiglia era soprattutto il legame di dipendenza, e “padre” e “figlio” non erano necessariamente parenti. A suggellare questo legame erano riti di iniziazione in cui il capoclan diceva al nuovo adepto: “Farò di te mio figlio”. Il rito comprendeva lo scambio di coppe di sake e l’attribuzione di segni di riconoscimento segreti: giacche ricamate con i simboli della famiglia o elaborati tatuaggi dipinti sul corpo, oggi in Giappone sinonimo di yakuza. Il tatuaggio come marchio riservato ai criminali fu adottato nel Sol Levante verso il 1720, come sostituto dell’amputazione. Per gli Shogun un corpo tatuato non solo offendeva il gusto estetico, ma era anche un marchio sicuro di un’estrazione sociale infima.
Ciononostante, il potere centrale più di una volta scese a patti con la yakuza. A metà ’700, per esempio, il governo promosse alcuni gruppi di tekìya al ruolo di esattori delle tasse. Per di più, una volta consolidato il proprio dominio, i Tokugawa rinunciarono a un servizio stabile di polizia e per regolare le questioni locali si affidarono agli unici con l’autorità e le armi necessarie a ristabilire l’ordine: le famiglie yakuza. Dopo il 1805, gli ispettori degli shogun strinsero infine accordi con i bakuto, che diventarono loro informatori.
Per l’imperatore. A partire dal 1850 la yakuza entrò in politica. Si schierò dalla parte del potere imperiale contro il suo nemico storico, i signori feudali. E quando, nel 1868, il primo imperatore della dinastia Meiji salì al trono abolendo la figura dello Shogun, la yakuza ottenne in cambio una certa libertà d’azione. Così, mentre infuriava la Prima guerra mondiale, gestì indisturbata il redditizio traffico di manodopera dalla Corea occupata, oltre agli appalti per la costruzione delle grandi infrastrutture per modernizzare il Giappone. Passò indenne anche dalla cocente sconfitta nel secondo conflitto mondiale. Anzi, il mercato nero e il business del pachinko (la slot machine giapponese) durante l’occupazione americana (1945-1951) aprirono il rubinetto di nuove risorse per la mafia del Sol Levante. Le famiglie yakuza diventarono per molti giapponesi le custodi dell’orgoglio nazionale. Forse per questo i membri della mafia giapponese di oggi ostentano fieri i loro tatuaggi.
L’instabilità politica del Seicento fu anche il brodo di coltura dell’altra grande “piovra” d’Oriente: le triadi cinesi. Al timone del celeste impero dal 1644 c’era la dinastia Qing (quella del film L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci, durata fino al 1911). Ma nella provincia di Fukjien (Sud-Est cinese) resistevano alcune bande ribelli. Vi aderirono anche monaci combattenti buddisti, tra cui alcuni superstiti del tempio di Shaolin distrutto dai soldati imperiali. Questi gruppi erano fedelissimi dei Ming di etnia han, imperatori dal 1384 fino a quel momento, ed erano disposti a rovesciare con le armi la dinastia regnante, di etnia manciù. Votati alla clandestinità, si trasformarono in società segrete dai nomi pittoreschi: la prima, intorno al 1760, fu la Società del Cielo e della Terra. Ma c’erano anche la Società della Gloria e dello Splendore, quella de Piccoli pugnali, quella degli Uccelli Rossi…
Abbandonata ogni ideologia politica, le società segrete si riciclarono in bande che fornivano (o più spesso imponevano) protezione ai viaggiatori che si spostavano sulle “autostrade” fluviali della Cina. E si moltiplicarono: fra il 1761 e il 1816 ne nacquero una quarantina. Molte con filiali in Malesia e Indonesia, lungo le rotte dell’emigrazione cinese. Fu questa l’epoca in cui i coloni inglesi fecero la loro conoscenza, battezzandole “triadi”: tutte infatti usavano il triangolo, segno di unità fra cielo, terra e uomo, come loro simbolo. Un po’ di esoterismo non guasta…. Rispetto alle famiglie della yakuza, le società segrete cinesi avevano infatti un ingrediente in più, l’esoterismo. Gli adepti credevano di essere destinati, dopo la morte, a un paradiso tutto per loro. E nella Società del Cielo e della Terra si entrava con un giuramento di sangue (quello di una capra o di una gallina sacrificata per l’occasione) dopo essere passati sotto un arco di spade simbolo del patto di fratellanza, ma anche della morte in agguato per il traditore. Nella vita quotidiana i membri di questa “onorata società” si riconoscevano da piccoli segni: un drappo colorato nascosto negli abiti, un certo modo di portare l’ombrello, il tè sorseggiato dalla tazza con tre dita, l’uso di un gergo noto solo agli iniziati, tatuaggi invisibili. I capi, poi, venivano indicati da cifre o da nomi in codice, come “dragone” o “custode dell’incenso”.
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