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Tizio, il figlio che si ribellò al padre

«Sono incatenato nell’inferno con i dannati»

Io sono nato sottoterra e mio padre è Zeus, il più grande degli dei dell’Olimpo. Mia madre era una principessa di nome Elara e Zeus, siccome voleva fare le cose discretamente, l’aveva nascosta nelle profondità della Terra. Ed io nacqui proprio lì. Ero un gigante di bell’aspetto che non si interessava delle beghe degli dei, che continuavano a litigare tra di loro. Ogni giorno c’erano scenate, liti, minacce e accuse. Ognuno sospettava dell’altro. Pensate che quando scoppiò la guerra di Troia, gli dèi dell’Olimpo anziché rimanere neutrali spettatori parteciparono attivamente alla contesa. Un gruppo si schierò dalla parte dei troiani di Ettore, altri dalla parte degli achei di Agamennone e Achille. Armati sino ai denti, scendevano sul campo di battaglia a duellare con gli umani. Mio padre Zeus, che era anche giudice supremo, doveva continuamente intervenire per dirimere le vertenze. Io preferivo starmene da arte per evitare guai. Che mi piombarono sulla testa, quando Era venne a sapere che il marito Zeus aveva avuto due figli dalla dea Latona, Apollo e Artemide. Accecata dalla gelosia, scelse proprio me come strumento della sua vendetta. Mi obbligò a corteggiare la rivale Latona. Una volta tra le divinità (e ce n’erano tante, che nessuno al mondo poteva ricordarle tutte) era stato atto un sondaggio che mi indicava come il Gigante più bello e garbato. Del mio corteggiamento a Latona se ne accorse subito Zeus e immediata fu la sua spietata decisione: mi fulminò e mi fece precipitare nella parte peggiore e più profonda degli Inferi, nel Tartaro. Anche la punizione era tremenda, simile a quella inflitta a Prometeo: due aquile venivano a ogni fase della Luna a divorarmi il fegato, che poi ricresceva regolarmente. Alcune volte anziché le aquile arrivavano due serpenti che mi facevano lo stesso trattamento. Non vi descrivo le sofferenze. Mio padre non mi ha mai perdonato, nonostante gli abbia mandato molte richieste di perdono. Il Tartaro era inizialmente l’inferno degli immortali: vi furono imprigionati i Titani e i Giganti che si erano opposti al potere di Zeus; poi cominciarono ad arrivare criminali di ogni genere, condannati a supplizi incredibili. Io, a differenza di altri, non ero incatenato per cui, con il mio fegato a pezzi, passeggiavo in mezzo ai condannati. Andavo a trovare due giganti di nome Oto e Efialte, che erano legati a una colonna con dei serpenti. Non potevano mai chiudere gli occhi per dormire perché una civetta continuava con le sue grida a tenerli svegli. La punizione che mi divertiva di più era quella inflitta alle cinquanta figlie di Danao, re della Libia e poi di Argo, le quali tentavano di riempire, ininterrottamente, dei vasi senza fondo. Queste ragazze avevano sposato i cinquanta cugini, figli di Egitto, ma su istigazione del padre nella prima notte di nozze li uccisero a pugnalate.

L’eterna fatica di Sisifo

Qui nel profondo del Tartaro c’era anche Sisifo, il fondatore di Corinto, forse l’uomo più furbo di tutti i tempi. La sua storia ha dell’incredibile. Quando si presentò nella sua casa Tanatos, il genio della morte, Sisifo, più svelto di lui, lo incatenò, creando una situazione imbarazzante, perché sulla Terra più nessuno poteva morire. Tanatos fu poi liberato, ma Sisifo non si diede per vinto e ordinò alla moglie di non dare sepoltura al suo corpo. Portato nel regno degli Inferi, non gli fu difficile dimostrare che la sua presenza laggiù era illegale: con il suo corpo insepolto non poteva stare nel Regno dei morti. Gli era stata quindi concessa una licenza di tre giorni per regolarizzare la sua situazione. Sisifo però non si fece più vedere e lasciò la vita in età molto avanzata. Nel Tartaro fu condannato a una punizione diventata famosa: doveva spingere una grossa pietra in cima a una montagna, ma, prima di arrivare alla vetta, il macigno gli sfuggiva sempre di mano e rotolava in basso, costringendolo a ricominciare la sua eterna fatica. Non meno tremendo il supplizio riservato a Tantalo, re della Frigia. Anche lui, come me, era figlio di Zeus. Non ho capito bene di quale colpa si fosse reso colpevole e perché si trovasse qui accanto ai più spietati criminali della Terra. Alcuni sostengono che era troppo superbo, altri che avesse rivelato agli uomini i segreti degli dèi, altri ancora che aveva rubato il nettare dall’Olimpo per darlo a li uomini. La verità forse è un’altra: aveva indispettito Zeus, che, molto irascibile, non ci aveva pensato due volte a mandarlo nel Tartaro. Tantalo era stato immerso in uno stagno, con l’acqua che gli arrivava sino al mento.. Quando si chinava per dissetarsi, l’acqua si ritirava per incanto. Sul suo capo pendevano rami carichi di frutti, ma appena sollevava il braccio per afferrarne uno, i rami diventavano irraggiungibili.

 

 

Le tre Ore. “portinaie del cielo”

Le Ore all’inizio erano le divinità che regolavano le stagioni, poi hanno personificato le ore del giorno. Figlie di Zeus, furono chiamate da Omero ”portinaie del cielo”: erano loro che ne chiudevano le porte, nascondendole con dense nubi, e che le riaprivano disperdendo le nuvole. Erano state incaricate di controllare che i fiori sbocciassero, che i frutti maturassero; che la neve cadesse nella stagione fissata e che i raggi del Sole giungessero più caldi sulla Terra quando alla primavera succedeva l’estate. Come le Grazie e le Parche, anche le Ore erano tre. I loro nomi erano diversi nelle varie leggende locali: gli Ateniesi le chiamavano Tallo, Auso e Carpo, ossia la fioritura della primavera, lo sviluppo dell’estate e la fruttificazione dell’autunno. I nomi più conosciuti erano però Eunomia, Dìche e Irene, ossia la Disciplina, la Giustizia e la Pace. I Romani identificarono le Ore sempre più con le stagioni dell’anno e portarono il loro numero a quattro.



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